Documentazione d'archivio sui balli comunitari
Intervento del dott. Carlo Pillai:
"Oggi possiamo dire di conoscere abbastanza del ballo sardo, in particolare del ballo sardo campidanese. Le fonti sono diverse e diversificate; possiamo contare prima di tutto sulla tradizione orale, poi sulla letteratura sull'argomento. Cioè, le diverse persone, in particolare viaggiatori forestieri nell'isola, che hanno scritto del ballo sardo, e infine possiamo contare sulla documentazione degli archivi. Come vedete sono fonti molto diversificate. La tradizione orale è un po’ in crisi, diciamo che il suo momento d'oro l'abbiamo tra la fine dell'ottocento e i primi del 900, per intenderci, quando Grazia Deledda scrisse le sue meravigliose tradizioni popolari di Nuoro, allora era un tempo in cui si poteva ancora raccogliere, ancora fare una ricerca sul campo molto proficuo.
Da quel periodo, molti decenni sono passati, molti di noi stanziali se ne sono andati, e quindi questa fonte si è andata indebolendo sempre di più. L'altra fonte è quella dei viaggiatori forestieri, di chi ha osservato il Ballo Sardo: è una fonte molto interessante, però abbastanza parziale, una fonte esterna.
La fonte interna è quella archivistica, che ci dà una visione del ballo sardo visto dall'interno, così come nasceva. Ed è dalla documentazione archivistica che veniamo a conoscere tutto l'aspetto organizzativo dei balli, e quindi questa fonte ci dice che questi balli in gran parte venivano organizzati dalla gioventù, come dicevano i piemontesi, come troviamo scritto nella documentazione di età sabauda, dalla “giovanaglia”; ecco perché in quel periodo (ma anche prima in età spagnola), i balli venivano organizzati dai giovani in quelle che venivano chiamate “Is festas de sa tzerachia”, che “tzeracu” ora vuol dire garzone, ma in quel periodo voleva dire semplicemente giovanotto, ed erano i giovani non sposati che si davano una organizzazione, eleggevano tra di loro i capi obbligati, che erano quelli che rappresentavano la gioventù e loro provvedevano all’arruolamento, diciamo così, del suonatore di launeddas attraverso un contratto, che potrebbe essere una scrittura privata o addirittura un contratto notarile. Questi documenti li abbiamo ancora, ci rivelano un mondo tutto il movimento tutto particolare e del resto rientra nella organizzazione della comunità dei villaggi di allora, che era una società molto strutturata, organizzata con regole ferree che noi oggi neanche immaginiamo più. Ecco, basti dire che di notte le persone non potevano circolare.: suonavano le campane del ritiro, i barracelli “custodivano” il villaggio e multavano chiunque trovassero per strada a zonzo. Non è che non si potesse uscire di notte, ma si poteva uscire soltanto per motivi legittimi, per gravi motivi, e bisognava avvisare il barraccellato.
In queste “feste de sa tzerachìa” si danno tutta una serie di notizie sulle quotazioni, sui pagamenti e sugli obblighi del suonatore di launeddas, e sulle occasioni nelle quali i suonatori intervenivano. E non soltanto per i balli che venivano organizzati dai giovani, ma anche per altre occorrenze, per esempio certe processioni; il contratto era annuale e il compenso avveniva mediante la consegna di una certa quantità di grano, oppure anche in danaro.
Ante 1850, Raffaele Aruj: "Ballo in fila con suonatore di launeddas" (Collezione "Luigi Piloni", Biblioteca Universitaria di Cagliari)Questa
documentazione non ci dà soltanto l'aspetto esteriore, organizzativo dei balli ma
ci fa penetrare anche nel mondo dei balli stessi. Intanto, tutta una serie di
argomenti a margine molto interessanti saltano fuori: per esempio la questione
delle armi: le autorità proibivano di andare armati ai balli. Abbiamo dei pregoni
viceregi (simili a decreti) fin dal 1726, un altro importante documento del 1768, e un altro ancora dove persino
i nobili (questo nel pregone del Vicerè Lascaris nel 1779) non potevano recarsi
armati ai balli.
“Sa pratza de is ballus” che c’era in ogni paese, veniva sorvegliata dal barracellato e chiunque consegnava queste armi, che poi venivano restituite quando il ballo finiva. Anche quando si ballava nei loggiati delle case: nelle case più grandi i capi obbligati de sa tzerachia erano incaricati di raccogliere le armi. Le armi in quelle occasioni si risolvevano nei bastoni, perché tutti quanti andavano in giro con il bastone appresso. Questi capi obbligati de sa Tzerachìa raccoglievano le armi o i bastoni e glieli consegnavano alla fine del ballo e provvedevano a raccogliere anche una piccola offerta che serviva per pagare l'illuminazione, cioè l'olio che veniva acceso, un “arriali”, un cagliarese (una moneta), la moneta più piccola che c'era nel Regno di Sardegna.
Poi c'è l'altro aspetto disciplinare molto importante che è legato alla Chiesa cattolica, e in particolare ai riti religiosi. I rapporti sono stati sempre ambigui tra il ballo sardo e la Chiesa cattolica, che all'inizio ebbe un atteggiamento molto rigoristico, dato dalla volontà di proibire il ballo sardo. Monsignor De Sobrecasas (siamo alla fine del Seicento), arcivescovo di Cagliari, lo voleva proibire, poi lui stesso confessò che non potè raggiungere i propri obiettivi perché neanche i maggiorenti gli davano retta, così come i gradini sociali più bassi della popolazione, e quindi dalla intera popolazione.
La
Chiesa riuscì soltanto molto parzialmente a temperare alcune abitudini, per
esempio l'abitudine di ballare dentro le chiese. Questo intento riuscì, non si ballò
più dentro le chiese, ma si ballò fuori dalle chiese, nel piazzale di chiesa,
in quello che veniva chiamato “Su ballu de cresia” o "Su ballu 'e missa", che era il ballo che veniva
la domenica all'uscita dalla messa cantata, ed ecco il motivo per cui si
chiamava così.
la Chiesa riuscì anche a imporre un altro divieto: di ballare “pendente il tempo dei divini Uffizi”, ovverossia i balli erano proibiti nel mentre che c'era la spiegazione del catechismo, oppure nel mentre che si svolgevano le liturgie cattoliche determinate, per esempio le 40 ore o altre cerimonie previste. Anche in quei frangenti c'era una sorveglianza. E c'erano parecchie violazioni per la verità, perché il ballo era molto seguito dai giovani e questi ballavano persino quando si celebravano i riti della religione cattolica, tanto che noi vediamo dalla documentazione d'archivio tutte le lamentele dei parroci, dei vescovi eccetera, fino ad arrivare a una curiosa proposta del 1761 del clero sardo che, rivolto ai Viceré, suggerì un rimedio: L’arcivescovo di Cagliari (arciv. Tommaso Ignazio Maria Natta), in quell'anno suggerì al viceré di far cessare questa abitudine di tenere i balli mentre c'era la celebrazione delle messe con un modo molto semplice: richiamando il barracellato e mandandolo a prelevare il suonatore di launeddas; cioè per interrompere il ballo bisognava interrompere il suono. Il suono era quello delle launeddas, si pigliava suonatore delle launeddas, che veniva incarcerato provvisoriamente e così via. Solo che succedevano un sacco di disguidi perché i ballerini si impadronivano del suonatore di launeddas, non lo mollavano e festeggiavano molte volte i barracelli che si davano alla fuga, e questo è capitato in diversissime occasioni.
Non tanto raramente, ma in diverse occasioni, si arrivò persino a infliggere la scomunica a chi non obbediva agli ordini del clero; ci sono dei casi molto clamorosi. Uno l’ho rintracciato nel 1809 a Serri dove, dopo la celebrazione di un matrimonio tra due giovani del luogo, questi qui rientrarono nelle loro abitazioni, nelle loro case e iniziarono a ballare per tutta la sera senza smettere, e la sera ci doveva essere il catechismo e il prete non aveva uditori, diciamo così.
Mandò il viceparroco a far interrompere questi balli, invece il viceparroco fu mandato via e allora il buon parroco, offeso, combinò la scomunica, la scomunica “latae sententiae”, che era stata prevista da una disposizione dell'arcivescovo di Cagliari (Diego Cadello) del 1799, ma che era rimasta ignorata da tutti. Lui la rispolverò ma al momento nessuno se ne accorse. Però la domenica successiva, prima di celebrare la messa il parroco andò in chiesa, e mando via il clero tramite il vice parroco, ordinandogli che non si poteva celebrare nessun rito religioso perché in chiesa c'erano degli scomunicati, e se ne andarono sia il parroco che il vice parroco. Questo provocò uno sconcerto enorme e il sindaco stesso di Serri prese l'iniziativa di radunare il popolo, con le buone o con le cattive, e dirigersi a casa del parroco, lo acciuffarono quasi facendolo volare, e lo cacciarono via dal paese, con ignominia, accompagnandolo fino ai confini di Escolca, dal paese di Serri. Quindi vedete bene a che cosa poteva dar adito a certe iniziative. Di asino non si parla, quella era la tradizione sarda di accompagnarlo e metterlo in groppa all'asinello, però all'incontrario, di modo che non desse le spalle al paese che abbandonava; una delle tante tradizioni bizantine ereditate dai Sardi, tale tradizione era propria di Costantinopoli, durante il Medioevo, che o vescovi o sacerdoti venissero cacciati in questo preciso modo, messi nell’asino, però all'incontrario, che non dovevano dare le spalle al Paese, era offensivo.
Questo
sono tutte regole disciplinari che noi ricaviamo da questi documenti, però abbiamo
di più dalla documentazione d'archivio, abbiamo addirittura notizie preziose
sulle modalità di svolgimento del ballo. Dunque questa fonte archivistica è
stata sempre dimenticata, perché secondo un'antica consuetudine le nostre
cattedre di antropologia culturale e di storia delle tradizioni popolari sono
cattedre che si sono sempre basate sulla ricerca sul campo, molto raramente
questi studiosi di tradizioni popolari ricorrevano alla fonte archivistica.
L'esempio classico è quello di Francesco Alziator, era frequentatore di
biblioteche, ma non di archivi.
Quindi questa fonte archivistica è stata scoperta tardi, erroneamente è stata dimenticata, perché se solo noi riflettiamo all'importanza delle tradizioni popolari in Sardegna, al folklore sardo, necessariamente dobbiamo dedurre che dal punto di vista dei governanti di allora questa materia non potesse essere assolutamente trascurata. E difatti era così: Noi troviamo, ad esempio, tantissime disposizioni relative a come dovevano essere tenute le corse dei cavalli. C'è tutto un insieme di disciplina che i vicerè davano allo svolgimento di queste corse: le cavalle non potevano gareggiare con i cavalli, i puledri non potevano gareggiare con i cavalli, non si potevano portare bastoni, “is matzocas”, ma solo frustini, non si poteva picchiare l'avversario. C'erano regole anche su come i cavalli dovessero essere sistemati. Comunque il commento non è di questa sede e sorvoliamo.
Anche per quanto riguarda i balli troviamo queste notizie. Non solo per queste disposizioni che ho citato prima: la questione del divieto dei balli, il rapporto coi marchesi (i nobili) eccetera, ma anche il ballo come veniva eseguito, perché i balli avvenivano soprattutto in occasione di feste e quindi con tanto assembramento di persone.
Quando l'assembramento cresce, allora possono succedere disguidi, possono nascere delle risse. Basta pensare alle nostre feste campestri, dove l'attitudine è sempre quella di ubriacarsi e la finivano a picchiarsi. “A Santa Arega andeus / totu a una cambarada / e in pari ndi torreus / cun sa conca segada”. Cosa vuol dire questo “mutetu”? Vuol dire semplicemente che nell'occasione delle feste campestri, quando sciamavano tutti a casa, e allora una parola tira l'altra, bisticciavano e si bastonavano... “Sa conca segada”, ecco.
Figuriamoci
per il ballo, dove tutta una serie di regole dovevano essere osservate. Una
questione che riguarda Selargius in particolare, per la festa dell'Assunta, il
15 agosto 1822, nacque una rissa perché un gruppo di giovani vollero introdursi
prepotentemente ed improvvisamente in un ballo di sole donne, e questo non
rientrava nelle regole consuetudinarie. Non era un tabù, non siamo in Sicilia,
quindi non è che qui ballassero gli uomini con uomini le donne con donne, non
era così.
Però, ove capitasse che ballassero le sole donne per introdursi dei giovanotti bisognava chiedere un preventivo permesso, bisognava introdursi con i dovuti modi ed educatamente. Siccome questi qui non lo fecero, una di queste ragazze non volle più ballare, fu insultata, intervenne il fratello di questa ragazza, e ne nacque una rissa. (Archivio di Stato di Cagliari, Reale Udienza, Cause criminali, Vol. 70, n. 6: Un gruppo di giovani del luogo, Salvatore Murenu, Michele Orrù, Efisio Porcu, Efisio Meloni, Raffaele Sais, vollero entrare “in quadriglia nel ballo e nelle mani della zitella Greca Saba e non volle cedere la mano, anzi procurò di sortirsene”, al che fu da loro insultata, ne nacque una rissa per l’intervento del fratello Narciso Saba, tanto più che molti dei parenti erano armati di bastoni o coltelli)
Sempre
a Selargius, nell'anno 1854, nacque un altro bisticcio perché si vuole
escludere qualcuno dal ballo in modo così indiscriminato. E ancora a Selargius
nel 1853, altro bisticcio perché una donna si rifiutò di ballare con un ragazzo
in un modo troppo brusco. E anche le ragazze, quando desideravano non ballare,
dovevano farlo con una certa diplomazia, “Su ballu negau”, come si suol dire.
Quindi uno poteva anche offendersi e spesso andava a finire che se una ragazza
rifiutava di ballare con uno, poi continuava a non ballare. E questo succedeva
non solo nel popolo, succedeva anche nei balli dell'aristocrazia a Cagliari.
Anche lì si suggeriva che questi balli di corte del Vicerè, quando una donna si
rifiutava, allora consigliavano di non ballare per tutta la sera.
Oppure
le stesse modalità del ballo: “Sculai su ballu” era una cosa vietatissima.
Quando il ballo è in corso è fatto divieto entrare. A Pimentel successe un
fatto del genere. Siamo nel 1802 e ci fu una rivolta contro colui che volle
entrare con la sua ragazza nel ballo in questo modo, gli astanti reagirono malamente
dicendo “Arropoai arropai, ca non est benìu mancu cun sa filla de sa Marchesa de
Pasqua” (la marchesina di Pasqua
probabilmente era una ballerina notevole nell'ambito dell'aristocrazia
cagliaritana).
Oppure
“Fai croba”, come dicono gli stessi documenti d'archivio, una cosa Offensiva.
Cioè quando uno si introduceva nel ballo buttando via il partner di una
ragazza. Questo capitò a Quartucciu. Siamo negli anni primi dell'Ottocento. Un
grave fatto di sangue dove morì uno dei giovani, fu accoltellato un certo
Saturnino Spiga, perché costui volle reagire al fatto che un tizio, mi pare a
un certo Pisu, gli fregò la ragazza, e questa era considerata una cosa
offensiva. Sempre a Quartucciu, però a metà dell'Ottocento, c'è un'altra notizia
curiosa, sempre a proposito dello svolgimento dei balli: un ballerino fu
allontanato malamente perché non si adeguava alle modalità del ballo. Ovverosia
il ballo campidanese era comunemente ritenuto un ballo lento, tanto è vero che
alcuni viaggiatori forestieri parlavano di una certa gravità dei ballerini,
tanto che ricordano le danze dei dervisci. Questo scrive il francese Gaston
Vuillier e anche l'inglese Smyth, riferiscono questo “a steep gravity of the
dancer”, questa gravità dei danzatori, questa lentezza del ballo campidanese.
Ebbene, a Quartucciu questo giovane fu mandato via molto bruscamente perché
ballava, secondo quanto dissero gli altri, alla marghinesa. Il Marghine è la
zona di Macomer, per intenderci. Quindi ballava secondo le usanze del ballo
logudorese che loro ritenevano non propria del ballo campidanese, ovverossia
ballava a saltelli, quindi un ballo movimentato che non rientrava nelle nostre tradizioni.
E
qui concludo; nel 1836, in un momento abbastanza tranquillo in cui le
autorità ecclesiastiche non ce l'avevano con il ballo, però c'erano le missioni
dei gesuiti in quel periodo, i cosiddetti missionari, quando fecero la missione
a Settimo San Pietro, questi gesuiti istigarono il parroco del luogo a proibire
i balli per la festa di San Giovanni; questo
parroco proibì i balli suscitando malcontento. Mai l'avesse fatto, l'arcivescovo
lo venne a sapere. Fece un “liscio e busso” al suo parroco, lo minacciò e lo
rimproverò dicendo che non si azzardasse mai più di prendere questi
provvedimenti. Prima di prendere ordini del suo ordinario, quindi gli disse che
non doveva obbedire ai gesuiti, ma doveva obbedire al suo arcivescovo, e il suo
arcivescovo non avrebbe mai fatto proibire i balli, perché questa materia,
rientrando nelle questioni di ordine pubblico, era di competenza anche del
Viceré. In pratica faceva capire l'arcivescovo di Cagliari che il divieto del
ballo poteva comportare proteste anche violente e quindi poteva dar adito a
questioni di ordine pubblico in cui la Chiesa veniva messa sul banco degli
imputati, quindi lo minacciò di non permettersi di farlo mai più. Quindi il
ballo era entrato ormai nelle tradizioni popolari, una cosa comunemente
accettata nel tempo.
Vi ringrazio dell'attenzione".
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