Giuseppe Della Maria - Contributo allo studio della danza in Sardegna (parte 2)



Fonti moderne 


La prima inequivocabile documentazione figurativa sulla danza sarda giunge a noi dopo un silenzio di quasi cinque secoli dalla precedente iconografia e si ritrova nella prima edizione (1826) del prezioso Atlante di quell'incomparabile studioso della nostra isola che fu Alberto Ferrero Della Marmora. La tavola V, infatti, della raccolta, rappresenta la prima illustrazione "de su ballo tundu": sostenuto dal coro di un gruppo di cantori, tavola ristampata nella seconda edizione dell'Atlante stesso nel 1839-40. 

Giuseppe Cominotti, Ballo sardo del Capo di Sopra

Come acquerellista e illustratore, nel 1824 Il Generale Alberto Ferrero della Marmora lo incaricò di illustrare l'Atlas del suo Voyage en Sardaigne, pubblicato nel 1826 e successivamente nel 1839 in collaborazione con il disegnatore italiano Enrico Gonin




















Segue nel 1841 il profilo acquarellato della carola Isolana ad opera di Luciano Baldassarre: che riprende ugualmente il ballo tondo senza strumenti e retto dal coro. 

Cenni sulla Sardegna, illustrati da 60 litografie in colore / di Baldassarre Luciano - Stamperia Botta, Torino, 1841 .



Attribuiti all'anno 1847 sono da stimarsi l'acquarello (di proprietà del dottor Pasquale Marica e da me per la prima volta riprodotto) e il dipinto ad olio di maggior respiro (da considerarsi l'esito definitivo del precedente e di proprietà dell'on. prof. Giuseppe Brotzu) eseguiti dal pittore cagliaritano Raffaele Arui, che ci offrono la raffigurazione del ballo sardo con le launeddas: il piffero e il tamburino: prima, effigie a noi pervenuta della danza sarda accompagnata dai suddetti strumenti musicali. 

Raffaele Aruj: "Ballo tondo con launeddas, pifaro y tamborillo" (1847 ca)



Raffaele Aruj, Ballo a Sanluri (1840-50)
(Il dipinto è bruciato nell'incendio che la notte dell'11 aprile 1997 è divampato nella Cappella della Sindone nel Duomo di Torino e che si è poi propagato nella cosiddetta Manica 36 al secondo piano di Palazzo Reale, dove si trovava in deposito assieme ad altri duecento quadri circa, andati in parte perduti).


Nel 1861, il massimo pittore isolano dell'800 - Il cagliaritano Giovanni Marghinotti a noi porge, in un pregevole dipinto ad olio, l'epilogo di una sagra campestre svolgentesi nelle Immediate vicinanze di una chiesa rurale (Nora o Santa Greca?) - e da me, anch'esso per la prima volta riprodotto - nel quale il ballo tondo si inserisce in un gaio spettacolo di tripudio e di baldoria. 

Giovanni Marghinotti, Festa Campestre, 1861 (Sassari, MUS'a - Pinacoteca al Canopoleno)
(Presumibilmente, dall'analisi della chiesa dipinta, si tratta della Festa di San Lussorio a Selargius)

Alla fine dello stesso secolo si riscontrano: una rappresentazione acquarellata di "Ballo sardo per la festa dì San Gavino in Portotorres" di Simone Manca, un fantasioso dipinto su vetro sulla danza isolana in età romana ad opera di Giuseppe Sciutti e la riproduzione di una carola a Belvì, cadenzata dal coro, ritratta da Gastone Vuillier. Infine, i pittori sardi a noi contemporanei hanno, per la maggior parte, ritratto il ballo tondo in loro opere sia ad olio, che in acquarello e In incisione. Ricordo di Giuseppe Biasi «Ballo tondo alla fiera» e «Ballo sardo In Ollolai»; di Mario Delitala «Il ballo e bornborombò» e «Il ballo a Torpè»; di Carmelo Floris «Ballo tondo». 

Simone Manca di Mores: Tav. XXVII "Ballo Nazionale detto Ballu Tundu", in "Ricordo alla mia cara figlia Luigia Riccio - Costumi e vedute dell'Isola di Sardegna; lavori originali eseguiti dal settembre 1878 al settembre 1880"

Gaston Vuillier: "Les îles oubliées: Le Isles oublièes: Les Baleares, La Corse et la Sardaigne, impressions de voyage", Paris, Hachette, 1893

Anche artisti non sardi hanno voluto rappresentare la carola isolana e ml piace segnalare il dipinto ad olio eseguito nei 1922 da Alfredo Vaccari. Tra le cartoline illustrate, me ne sovviene una, sufficientemente curiosa, stampata a colori alla fine del secolo scorso a Cagliari e tratta da una fotografia di Ettore (Evaristo) Mauri e un'altra, più recente, che fa parte di una collezione di costumi sardi. Varie fotografie sul ballo isolano sono state inserite in periodici ed opuscoli. Cito quella riportata da Andrea Pirodda sulla danza a copie in Aggius e quella di Piero Pirari sul ballo ad Ovodda, ove si nota che gli uomini e le donne non si trovano fra loro alternati, ma gli uni e le altre costituiscono due gruppi distinti. 

Evaristo Mauri: Ballo sardo, 1898 circa  (Collezione C. Cani)



Costumi Sardi - Il ballo sardo tradizionale, primi del 1900  (Collezione C. Cani)


DOCUMENTI LETTERARI 

Il primo documento letterario pervenutoci si rintraccia nel sinodo diocesano dei 26 ottobre 1552, nel quale il Monsignor Salvatore Alepus - rientrato dal Concilio di Trento e compiaciuto per il dovizioso dono offertogli dal Capitolo (oltre mille scudi in oro) - scaglia l'anatema contro le prefiche accompagnatrici delle spoglie dei morti, per le loro nenie funebri perturbanti la pace delle chiese, condanna lo svolgersi della danza nei templi e invita le autorità secolari a voler fiancheggiare e sostenere l'opera dei parroci nell'applicazione della norma sinòdica. Pochi anni dopo, il primo storico sardo: il cagliaritano Sigismondo Arquer - luminosa face dell'umanesimo Isolano, martire della cosidetta santa inquisizione - attesta l'impiego del canti profani e l'uso delle carole nelle chiese rurali della Sardegna, sia di giorno che di notte. 


Scrittori del '700 

Dobbiamo giungere al 1759 per poter rinvenire - sul ballo sardo - successivi riferimenti. Questi si individuano in una anonima relazione, per la quasi totalità ancora inedita. In essa è Indicato che "la miseria non rende questa gente malinconica; se viaggiano, sempre cantano" ed inoltre: "sono amantissimi del ballo, della maschera e della caccia. I loro balli si passano sempre alla campagna o sulle piazze, non avendo case capaci per questo. Si praticano non solo nei carnevali, ma nei giorni festivi ed in tutte le feste campestri. Non sono questi dei minuetti, o altre danze figurate, ma un'unione di uomini e di donne, tanti quanti vogliono esservi, che si danno le mani gli uni e gli altri, e girano in rotondo, facendo un certo passo che non saprei come spiegare, e dei movimenti di braccio, in perfetta cadenza. Nelle ville del Capo di Cagliari si balla al suono della lionedda. In Sassari a quello del chitarrino, o al canto di un numero di ballerini; ed in altri luoghi finalmente al suono del tamburino. In molte ville tosto che una dama ha partorito, corrono quelli che vogliono alta casa di essa, ed ivi ballano e cantano tutta la notte". 
Questo brano - pur laconico - costituisce il primo specifico documento descrittivo della danza in Sardegna negli essenziali dati conformativi, nei mezzi strumentali e vocali di esecuzione e nelle determinate località di svolgimento. 

Il cappellano militare Giuseppe Fuos, nel suo vivo e prezioso quadro lasciatoci sulla vita sarda nel periodo 1773-1776, ci informa che "si balia abbastanza fra i Sardi, specialmente nelle loro feste ecclesiastiche, e talvolta ballano anche nenia chiesa dinanzi all'altare". Si deduce, quindi, che il sinodo vescovile a distanza di due secoli attendeva ancora la sua integrale osservanza! Prosegue il pastore protestante: "Essi si mettono in un circolo d'uomini e donne, l'uno tiene l'altro per mano, e talvolta attorno al suonatore, il quale sta nel centro, con tali movimenti tremuli e con volti così gravi che si potrebbe considerarli piuttosto come una compagnia di tremolanti". Prima segnalazione dell'esistenza di scosse e di brividi nelle persone dei danzatori sardi, movimenti che vieppiù conforterebbero la congetturata origine protoistorica della danza sarda (sopravvivenza del rito di liberazione da influenze malefiche). 

A distanza dì quasi venti anni benemerito naturalista Francesco Cetti ci fornisce l'interessante notizia che "l'ampiezza della palma" delle corna dei daini sardi "è sì notabile che ii campidanese ammolitala nell'acqua fa suole alle sue scarpe per ballare più sonoramente nelle «prasciere» (luogo pubblico ove si balia) alla armonia dei tamburi e delle «lionedda»". L'uso di scarpe espressamente confezionate con corna di daino per una, danza più risonante, lascia ben intendere l'importanza e l'interesse che il ballo assumeva in Sardegna e il curioso uso venne a protrarsi ancora nel secolo scorso, come è confermato dal Mimaut. La denominazione «prascieri», letteralmente «piacere», impiegata per indicare la località ove abitudinariamente si svolgevano i pubblici balli, vocabolo in uso anche nella città di Cagliari, potrebbe assumere significato sintomativo, circa Io scopo e il carattere della danza nell'isola, potrebbe cioè essere invocata quale componente documentale per un accertamento della danza sarda di derivazione ancestrale erotico-sessuale, di cui la odierna denominazione stessa sarebbe un superstite, quanto logico, residuato. L'insigne naturalista così continua: "I cantori si introducono nei conviti; i sonatori sono stipendiati pubblicamente per i dì di festa: allora si trovano al luogo pubblico: il popolo li accerchia, e balla". 

Nello scorcio dello stesso secolo, il padre Gelasio Floris, nel suo ricco e pregevole "Componimento topografico storico dell'isola di Sardegna" - manoscritto placidamente sonnecchiante nella Biblioteca Nazionale di Cagliari ci fornisce altri interessanti ragguagli sulla carola isolana e ci indica che viene eseguita "in una stanza, salone, o anche in piazze pubbliche o private per tante ore". Precisa inoltre, che "giovanotti, con zitelle, ed altri, con le mani afferrate girano con un passo che a tempo fa dei passi regolati, ed altri giri coi piedi, e con le gambe, senza interrompere il giro. Il circolo però, delle persone che ballano per poter regolare il passo del moto del corpo, è sostenuto da un suonatore di cioffoli. Il suonatore sta nel centro del circolo e sempre in piedi. Questi balli sono comuni in Sardegna a tutti i paesi e città, ed anche in quelle città dove vi sono teatri, vi si fanno fare per comodo delle persone che non si dilettano di altro ballo". 
Il Floris prosegue specificando che si balla comunemente in carnevale e nelle feste principali dei paesi, soprattutto in quelle rurali che ricorrono in primavera, estate e autunno; nelle feste nunziali "e ogni giorno di allegrezze estraordinarie". Chiarisce l'autore che "in molti paesi, soprattutto nel capo settentrionale, perché scarseggiano di buoni suonatori di launeddas, supplisce un canto armonioso di giovanotti che allo stesso tempo ballano e cantano canzoni sarde con un tenore e un buon basso; e modulano di concerto la voce tutti i tre cantori che dà uno ai ballatori il modo di fare il passo". Ed infine, che "sebbene questo ballo sia usato per tutti i paesi tanto dal capo di Cagliari, quanto in quello di Sassari e Gallura, non di menò con più fanatismo si usa nel capo di Cagliari: imperochè in ogni paese vi è suonatore, ad ogni domenica, ad altra festa di precetto, (che) deve sonare, al dopo pranzo, in un certo luogo pubblico, in piazzale o cortile dove tutti accorrono o per ballare o per guardare. Tale luogo si chiama antonomasticamente «su praxeri», cioè luogo di piacere". 

Nel 1787 Matteo Madau disserisce sul canto e sulle «launeddas», informandoci che queste oltre che con le normali canne si riscontrano anche costituite con femori di fenicotteri. 

Un manoscritto anonimo sugli « Usi, costumi e dialetti sardi », non datato ma da attribuirsi allo scadere del '700, trascritto da Giacomo Lumbroso, ci fornisce, tra l'altro, i seguenti interessanti ragguagli: "Di rado però esso (il ballo tondo) conserva quella forma circolare, o sia quella rotondità, da cui prende la denominazione: presenta mille figure: si stringe, si slarga, si ripiega, si svolge ad arbitrio di chi balla: e basta che uno incominci a variare l'andamento monotono, perché quella variazione si comunichi gradatamente a tutto il ballo, dovendo tenergli dietro, per non venir rotta la gran catena. Ogni uomo conduce per mano a questo ballo la donna che invita. La destra della donna benchè stretta dalla sinistra d'un altro uomo trovasi sempre in libertà: la privilegiata è la sinistra, ed è quindi legata per tutta l'ora del ballo alla destra dell'uomo che l'ha condotta. È legge dunque di questo ballo, che chiunque voglia entrare in esso, dopo essere stato ordinato e messo in moto, abbia a dirigersi verso la destra d'una donna, non mai vada ad afferrar la sinistra, slacciandola dalla destra dell'uomo, che le sta al fianco, ed è quello appunto che invitolla ili primo.
Vi è anche la legge per le donne, che dietro ad un rifiuto non possono più accettare altro invito, meno che non fosse del marito, del padre, del fratello. La violazione di queste leggi produce sovente nei balli delle conseguenze funeste. Nel Capo Meridionale si balla al suono di zampogne, ovvero d'un tamburello accompagnato da una specie di clarino; ed in ogni paese i suonatori sono stipendiati dal Comune, per dar questo trattenimento al popolo nei giorni solenni delle belle stagioni. Il canto, o sia il coro a quattro voci stabilito in mezzo al circolo regola il ballo nel Capo Settentrionale. Diversa è anche la marcia secondo la diversità dei luoghi: in alcuni, come in Sassari e nei Campidani, è tranquilla e pacata; e le donne colla gravità dell'incesso sembrano tante Giunoni. In altri, come nei paesi della montagna, è molto agitata; i giovani colla loro destrezza nel far le capriole par che abbiano le ali ai piedi come tanti Mercuri. Dove si descrive ballando una semplice curva: e dove una spirale uscendo e rientrando alternativamente in linea". Ulteriormente l'anonimo scrittore ci rende noto che il ballo sardo è praticato in campagna nel periodo della vendemmia, nei piazzali delle chiese campestri in tempo di feste, nelle pubbliche contrade durante il carnevale e nelle case private in occasione di sposalizi, messe novelle e altre liete circostanze familiari. 

Sul finire del XVIII secolo Domenico Alberto Azuni, per primo, distingue due tipi di danze in Sardegna: «baddu pastorinu» (à pas dei deux) e «baddu tundu». Il giureconsulto ci rende noto che il ballo sardo, generalmente, si effettua al suono de sa trubeddas, cioè di quel primitivo strumento ad ancia semplice costituito dallo stelo di fieno fresco chiamato anche «trumbita» o launedda de forrani», launeddas di foraggio. Chiude la serie degli scrittori del diciottesimo secolo, Giuseppe Cossu che laconicamente solo indica essere il cagliaritano nel danzare».

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Giuseppe Della Maria, dal "Nuovo Bollettino bibliografico Sardo e Archivio Tradizioni Popolari", Anno III, n.17, Cagliari 1958



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