Giuseppe Della Maria - Contributo allo studio della danza in Sardegna (parte 3)




Scrittori dell' '800

Al sorgere del secolo successivo, sorprendiamo nel commento alla «Carta de logu» di Giovanni Mameli dei Mannélli, l'asserto che sia le launeddas costituite da tre, quattro o cinque canne che il ballo tondo non possono essere che di origine greca.

Segue immediatamente dopo Francesco d'Austria-Este. Scriveva egli, nel 1812, che le persone del volgo eseguono la danza, "che si balla da molti in circolo, unendosi per mano, e girando sempre al suono d'una piva che fa sei suoni monomi toni, lugubri, in tono minore ma sonati presto; e si va girando facendo diversi passetti coi piedi, e anche salti, mettendo un ginocchio in terra sul gusto del ballo allegro ungarese, ma sempre tenendosi per mano tutti li ballanti in un gran circolo". Il principe rileva che «il sardo molto porta i piedi voltati indietro; e pare che il ballo sardo richieda questa positura». 

II Mimaut, nel 1825, mentre esalta la gaiezza determinata dalla visione dei costumi sardi, indica che il piacere e l'intreresse degli stessi abbigliamenti sono ancora aumentati dall'abbandono e dalla frequenza con cui i paesani del Campidano, battendo in terra le suole delle scarpe in corno di daino, eseguono le loro tradizionali danze, sia a due, sia in ronda, al suono del tamburino te delle launeddas.

Quasi contemporaneamente il Della Marmora ci elargisce - anche in questo settore - le notizie più precise e più ampie, riportate poi dalla maggior parte degli scrittori a lui successivi, senza citazione della fonte! Ci informa egli nel «Voyage»: "I Sardi hanno diverse specie di balli, ma il veto ballo nazionale è quello detto nel paese ballo tondo". Rileva che questo presenta notevoli difficoltà d'esecuzione, consistenti "non soltanto nel modo di fare il passo, ma anche in quello di eseguire diversi movimenti del corpo e certe scosse delle braccia e delle mani in cadenza dai basso in alto. Niente eguaglia la gravità con cui i Sardi meridionali fanno questo ballo: si direbbe spesso che non vi prendano gusto alcuno; invece è il contrario, perché in tutti i villaggi del Campidano i giovani si quotano per pagare un suonatore per il ballo della domenica. Neil centro settentrionale della Sardegna il ballo è molto più animato; si ravvisa spesso coi salti, e gli gambetti dei ballerini più agili e soprattutto colle grida di gioia emesse di quando in quando". 
Il Della Marmora, indi, chiarisce le regole del ballo: "La maniera di tenersi per mano, ballerini e ballerine, è d'importanza tale che una semplice trasgressione delle regole stabilite è stata spesso causa delle contese più sanguinose. Le persone coniugate o fidanzate possono mettere palma contro palma ed intrecciare le dita; ma guai all'uomo che cosi facesse con una ragazza che non fosse disposto a sposare o colla donna d'un altro!" Infine, rispetto all'origine della danza in Sardegna, egli considera che essa "offre realmente una somiglianza abbastanza curiosa colla descrizione che Omero ed altri autore fanno dei balli dei loro tempo e corrisponde anche a quella che è in uso oggi presso i Greci". 
Si sofferma, indi, sulle launeddas, sulla loro origine, sui suonatori, sulla musica vocale e, per primo, porge il ragguaglio che "le donne della Sardegna meridionale suonano il cembalo per ballare in famiglia; e cantano pure in coro, come gli uomini, ma la loro musica non ha la stessa espressione rude e selvaggia". 
Nel «Voyage» si specifica ancora che nell'isola si balla — oltre che nella ricorrenza delle feste campestri. — anche in occasione del gramínatorgiu (cardatura), del comparatico di san Giovanni, nel primo giorno di maggio e, infine, nelle feste nuziali. 

Giuseppe Cominotti, "Graminatorgjiu"
Come acquerellista e illustratore, nel 1824 Il Generale Alberto della Marmora lo incaricò di illustrare l'Atlas del suo Voyage en Sardaigne, pubblicato nel 1826 e successivamente nel 1839 in collaborazione con il disegnatore italiano Enrico Gonin

Al grande piemontese segue - l'anno successivo - Charles de Saint-Severin, il quale ribadisce l'esistenza di un balla pastorinu e di un baddu tundu e, rispetto a quest'ultimo: chiarisce che viene iniziato dai soli uomini: le donne vi partecipano in un secondo tempo, una per volta, inserendosi con destrezza, quasi furtivamente, il che rende il fatto più sentimentale e caratteristico. La carola isolana è raffrontata a quella della Moldavia e della Valacchia. 

Nel 1828 William Henry Smyth precisa che il ballo tondo "nel capo di Sopra si balla alla voce di parecchi uomini che standosi nel centro si appoggiano l'un con l'altro nelle spalle, cantando in particolare tono forte e gutturale chiamato «trippi», per acquistare il quale (i cantori) si avvezzano sin da ragazzi". Lo scrittore inglese soggiunge che "la danza comincia con passo lento, si affretta a tenore della cadenza e si protrae per una o due ore; ma non scappa ad alcun ballerino un sintomo di gioia e di soddisfazione e le donne, poi, tengono sempre gli occhi al suolo, quasi per tutta la durata della danza".

Lo strano silenzio osservato durante il ballo in Sardegna fu rilevato anche da Carlo Alberto - nella sua prima visita all'isola (1829) - silenzio, egli indica, interrotto qualche volta da un acuto grido lanciato da un danzatore nel preciso istante in cui egli stesso si inginocchia o si getta bocconi, simulando un grande spavento. In tale circostanza l'andare della carola non si arresta e nessun ballerino accorre ber rialzare il caduto: questi rappresenta un uomo sorpreso dall'apparire di una grande bestia. 

Tale variazione è da stimarsi la prima segnalazione - della interessantissima «sciampita». Antoine Claude Pasquin Valery, nel 1835, descrive un ballo tondo osservato: a Pirri e ne rimarca il carattere lussurioso, rivelato dal modo di frammischiarsi tra loro uomini e donne e soprattutto manifestato dalla maniera di stringersi la mano e da quella con cui la dama appoggia il suo braccio su quello del cavaliere e, ancora, denunciato dai numerosi contorcimenti stretti e lascivi: la musica, cadenzata e i suoni vibranti delle launeddas collaborano con efficacia all'inserirsi della voluttà nella danza sarda. Questo rilievo del Valery è da stimarsi - sull'argomento - il primo a noi pervenuto e concorrerebbe probativamente alla valorizzazione di una genesi erotico sessuale del ballo isolano.

Pirri, ballo accompagnato dalle launeddas (Foto dei primi del 1900, collezione privata)

Le preziose notizie di Vittorio Angius

Nello stesso torno di tempo, appare la fonte documentale più ampia, precisa e circostanziata sulla danza in Sardegna: l'opera di quel valente, scrupoloso ed onestissimo scrittore di cose sarde i che fu Vittorio Angius, ancora tutt'oggi non degnamente ricordato ed onorato. Nella sua meritoria collaborazione ai 30 volumi del Dizionario del Casalis, egli ci elargisce ampia messe di notizie sulle diverse costumanze vigenti nell'Isola nella prima metà del secolo scorso e le doviziose informazioni riportate, inerenti la danza, possono essere così compendiate:

Mezzi determinanti il ritmo e aree preferenziali. 

Il ballo sardo si eseguiva o a mezzo delle note launeddas; dei cori normalmente a quattro voci e cioè tenore, basso, contralto e soprano o anche a cinque, le stesse più un soprano più acuto; o del piffero e tamburino; o delle campane della chiesa; o della «serraggia» e infine mediante un gran piatto d'ottone, ornato da incisioni floreali o di altra specie, denominato «affuente» (di chiara derivazione castigliana), che vibrava per il battervi di una chiave!
Si ballava esclusivamente con le launeddas nei villaggi di: Arixi, Assemini, Ballao, Baratili, Barumini, Cagliari, Domusnovas, Gesico, Gonnosnò, Iglesias, Mandas, Maracalagonis, Monserrato, Muravera, Narbolia, Nuragogume, Pirri, Pula, Quartu S. Elena, San Gavino, Santulussurgiu, Senis, Serramanna, Siddi, Sinnai, Tuili, Uta, tutti centri appartenenti alla provincia di Cagliari. 
Unicamente all'armonia del canto si ballava, nei villaggi di: Ardaule, Bànari, Chiaramonti, Cossoine (nel quale paese il coro era formato da due uomini e da due donne), Fonni, Galtellì, Lodè, Longone, Lula, Luras, Monti, Nughedu, Nulvi, Nuoro, Oliena, Osidda, Pattada, Posada, Queremule, Talana, Tempio, Tonara, Tula, Ursulè e nella regione Figulina, comprendente i comuni di Cargeghe, Codrongianus, Figulinas, Muros e Ploaghe, centri delle provincie di Nuoro e Sassari. 
In molti villaggi la danza era regolata dal suono delle launeddas o a mezzo del canto. Si ricordano: Aggius, Ales, Armungia, Atzara (ove le launeddas erano spesso sostituite, ad. intervalli, dal canto di quattro o più voci in un'aria breve e rapida), le Barbagie in genere, nelle quali, se la danza veniva iniziata all'armonia del canto, i soli giovani aprivano il ballo e in periodo successivo entravano in esso man mano le donne, mentre, se la danza era sostenuta dalle launeddas, erano le ragazze che per prime costituivano la carola e i giovani partecipavano in un secondo tempo (giova però rilevare che le launeddas sarebbero apparse nelle Barbagie solo all'inizio dell'800); e ancora: Bosa, Cuglieri, Fordongianus, in quasi tutti i paesi della Gallura e Gavoi, Lanusei, Meana, Neoneli, Nurri, Ortueri, Samugheo, Sindia, Sorgono, Suni, Tinnura.
In qualche villaggio si ballava al ritmo dei piffero e del tamburino, sia isolati, sia accompagnati dalle launeddas; ad esempio a Gavoi, Lanusei, Nuraminis, Serrenti e Sisini.
In altri paesi, o a mezzo del piffero e del tamburino o a mezzo del coro: Olmedo, Orosei, Osilo, mentre risulta che in Oristano si ballava esclusivamente col piffero e col tamburino.

Simone Manca di Mores: Tav. XXVIII "Invito al ballo tondo veduto in Oristano alla Festa della Mad. d'Itria nel 1876", in "Ricordo alla mia cara figlia Luigia Riccio - Costumi e vedute dell'Isola di Sardegna; lavori originali eseguiti dal settembre 1878 al settembre 1880"

Senza qui volermi porre il problema sulle cause determinanti l'uso di questo o di quel mezzo nei vari centri isolani, ricordo che l'Angius - in riferimento all'indicazione che a Tonara il ballo veniva svolto all'armonia del canto - soggiunge che ciò avveniva «non potendosi che di rado avere uno zampognatore». 
L'impiego delle campane era abitudinario particolarmente a Mores, ma non in occasione delle feste popolari campestri nelle quali la danza era regolata sempre dal coro, bensì nella ricorrenza «delle maggiori solennità». In queste circostanze, «si ballava», afferma l'Angius, «all'armonia strepitosa delle campane battute nei soliti numeri della danza nazionale». La «serraggia» — strumento dei giovani contadini, costituito da una corda di minugge distesa in una canna o bastoncino arcuato che preme una vescica gonfia era usato con buona frequenza nel sassarese. 
Infine, l'affuente era utilizzato nel paese di Ghilarza, ove però, nei balli solenni, agiva il coro in ottava o in sestina, con ritornello. Spesso il canto delle canzoni era eseguito dalle ragazze - opportunamente invitate - che si ritenevano, pertanto, molto lusingate. [Per mia indagine personale, posso soggiungere che anche in altri centri era in uso l'«affuente», ad esempio in Ottana, nel quale villaggio si conserva tuttora qualche esemplare di quel caratteristico strumento].


Occasioni in cui si ballava: Si può asserire che il ballo fosse presente in ogni lieta circostanza pubblica o familiare presso quasi tutti i centri isolani. Non in tutti. L'Angius precisa, infatti, che a Desulo non si praticava il ballo, ad Isili si ballava pubblicamente solo in ricorrenza del Patrono, a Sant'Antioco le danze non erano in uso, a Seui le ragazze intervenivano ai balli esclusivamente durante i matrimoni, mentre a Sedini le donne partecipavano in carnevale, ai pubblici balli, sempre mascherate. Viceversa il duru-duru era animatissimo nei centri di Asuni, Barrali, Busachi, Magumadas. Le circostanze in cui si praticava il ballo possono essere così riassunte: 
  1. Feste religiose. Nella ricorrenza del Patrono o di altri santi particolarmente venerati. Dopo l'adempimento degli obblighi„ la gioventù si radunava intorno. la chiesa in più circoli e ballava su ballu tondo. Da notare che in qualche Comune, ad esempio in Bonarcado, fu inibito dalle autorità ecclesiastiche lo svolgersi del ballo nel recinto prospicente la chiesa, con l'esito conseguenziale che da allora in poi il concorso dei fedeli alla festa del Patrono subì una notevole, diminuzione. Anche a Sinnai i missionari gesuiti tentarono di inibire la danza, ma invano: i buoni sinniesi continuarono serenamente a ballare! Particolare degno di rilievo è il fatto che le danze, svolgentesi in campagna, si prolungavano anche per tutta la notte. L’Angius riporta la curiosa costumanza in uso a Domusnovas: in Occasione dell'Assunzione, la sera della vigilia., era consuetudine portare tre grossi carichi di legna alla periferia del paese, ove si accatastavano in un unico carro a mò di grande mole quadrata, ai cui lati superiori si issavano molti pennoncelli e pesanti pani de saba, alcuni dei quali pesavano anche sei chili. Una trentina di giovani salivano sulla catasta abbandonandosi a turpi acclamazioni e ad osceni canti. Al carro venivano aggiogati due robustissimi buoi super alimentati ed esercitati ai traino pesante. Il carico procedeva per una leggera china sino al piazzale della chiesa e, sovente, per l'eccessivo peso o per lo squilibrio del carico, le bestie si schiantavano al suolo o il timone si sollevava così da tener penzoloni quei poveri bovini. La catasta veniva indi incendiata di fronte alla chiesa, ove si svolgevano allegrissime danze per tutta la notte. 
  2. Carnevale. L'Angius non ci fornisce alcuna particolarità sui balli che si svolgevano in tale periodo. 
  3. Giorni festivi. In quasi tutti i centri veniva praticato il ballo nei giorni di riposo, dopo le funzioni religiose. 
  4. Nozze. In riferimento alle feste nuziali, giova riportare che in Gallura dominava la costumanza per cui gli invitati dello sposo, dopo il ballo e all'atto di congedarsi, baciavano tutti la sposa e lasciavano cadere dentro il seno di questa un qualche pegno o una moneta di valore. Non è fuor di luogo ricordare ancora che in quasi tutta l'isola vigeva l'uso, in occasione di matrimonio di un vedovo o di una vedova, di beffeggiare gli sposi nei “fagher sos sonos” presso la casa dello sposo e indi della sposa e cioè si intonava, a mezzo di cornette e di utensili in rame, uno strepitio ben poco sinfonici, interrotto da strilli e fischi. Contrariamente a quello che si può prevedere, gli sposi non se ne risentivano, anzi, scendevano nella via, prendevano parte al ballo, che subito si organizzava e, per ultimo, invitavano suonatori e cantori a bere e mangiare! 
  5. Nascite. In occasione della nascita di un primogenito, parenti ed amici si riunivano in casa della puerpera e, dopo uno splendido banchetto, raggiungevano l'alba ballando allegramente. In Gallura, in tali ricorrenze, le danze si protraevano anche per tre notti (li vigiatogii, cioè le veglie). 
  6. Prima messa d'un sacerdote. Anche in tale circostanza, la festa si chiudeva normalmente con i balli (sas bodas). 
  7. Mese di maggio. Queste sopravvivenze degli antichi floreali o della majuma erano particolarmente in a Castelsardo e l'Angius ne dà una circostanziata descrizione specificando che le feste avevano termine coi balli. Degno di rilievo è la celebrazione di maggio [cfr. Lumbroso] che si svolgeva a Sorso: si piantava nello spiazzo di una strada un toro nuziale vistosamente inghirlandato di rose e copiosamente munito di nastri multicolori, località ove il popolo nei giorni festivi conveniva per giocare, cantare, ballare e bere... gratuitamente a spese delle famiglie della contrada! È da ricordare che ad Alghero erano in uso «las veillas», cioè veglie: in quasi tutte le strade, da una parte e dall'altra, si stendevano due o tre tende, denominate «vermas», illuminate internamente da un fanale, nelle quali si riuniva il popolo per ballare. 
  8. Ricorrenze di carattere pastorale. In Gallura, per lu graminatorgjiu», cioè la pratica autunnale della cardatura delle lane, per «lu valcatogjiu», pestamento delle lane carminate, già in gran parte tessute, era il ballo a chiudere la festosa giornata. Nel sassarese, e nella stessa Gallura, dalla metà di settembre a tutto ottobre, durante la vendemmia, i cittadini si recavano in campagna con buona frequenza e la danza costituiva la ricreazione preferita. Aggiungo - benchè l'Angius non lo ricordi - che in Sardegna, e particolarmente in Ogliastra, si ballava in campagna anche in occasione del «sinnudroxiu» cioè applicazione dei segno distintivo nelle orecchie a ovini e caprini. Tale pratica si svolgeva, e si svolge, a circa metà maggio. 
  9. Riconciliazione tra famiglie. Ancora in Gallura, nella eventualità che i familiari di una persona uccisa perdonassero l'omicida, l'atto di pace veniva effettuato in campagna, attraverso un rito che stimo proficuo - perché poco conosciuto - riportare. Convenivano in località campestre uomini, donne, fanciulli di entrambe le parti: i primi, tutti armati. Un sacerdote si infrapponeva tra gli offensori, alla sua sinistra: e gli offesi, alla sua destra. Sollevava un crocefisso: si deponevano le armi, si levavano le berrette e tutti contemporaneamente avanzavano e si avvicinavano. Il sacerdote saliva sopra un sasso e pronunciava un sermone esortante la pace. Discendeva, ripigliava la croce e chiamava a sé gli offensori. Da notare che nel periodo precedente, quando cioè gli offensori e gli offesi si appressavano tra loro, questi ultimi fremevano ed esclamavano parole d'ira e strida di dolore. Ma tutto si rischiarava, quando quelli chiedevan loro il perdono. A passo lento, quasi vergognosi di se stessi, pallidi, gli offensori si avvicinavano verso la persona principalmente offesa: questa, lanciato un cupo gemito, apriva le braccia e pronunciando «Dio ti perdoini» suggellava la pace con un bacio. Le donne piangevano consolate e davan grazie al Signore, e anche quelle che più direttamente eran legate al morto, desolate, non imprecavano, ma invocavan il loro caro e, persistendo nel gemere, si traevano verso la macchia o all'ombra degli alberi e dopo breve tempo raggiungevano le loro dimore. Tutti gli altri partecipavano ad un lauto banchetto, durante il quale partivano pistolettate e fucilate, e, alla fine, si cantava e si ballava. La pace così determinata soleva essere perpetua. La danza - ultima scena orgiastica di un dramma le cui radici sono addentellate verosimilmente a periodo precristiano - era denominata. «baddu di lu sangu», danza del sangue. 

Forme di ballo 

L'Angius ci rende edotti di due tipi di ballo: quello de is bagadias, cioè delle nubili, in cui dominava l'allegria, manifestata con frequente slancio di capriole con notevole movimento delle membra e con ripetuto battere dei talloni, e un ballo de is fiudas, delle vedove, nel quale il ritmo era sostenuto da una armonia grave e malinconica. Il ballo assumeva un aspetto contegnoso e serio e tale carattere determinò la denominazione (le vedove in Sardegna non hanno mai partecipata ad alcuna danza). 

Balli a Cagliari. 
A chiusura delle notizie tratte, dal Dizionario del Casalis voglio indicare quanto l'Angius stesso ci informa sui balli nella città di Cagliari. Qui si praticava il ballo tondo il primo maggio, in occasione della sagra di Sant'Efisio, nella piazza San Carlo, nel primo tratto dell'attuale corso e nel campo di San Nicolau (pressi di via Sassari). Stimo doveroso - ai finì della precisazione storica - chiarire che questi balli ebbero termine, all'incirca, in periodo anteriore alla prima guerra mondiale, per cui devesi ritenere erronea la indicazione della persistenza odierna di tali balli, Così come viene riferito nel volumetto «Dance of Italy» della dottoressa Anna Maria Galanti. Si ballava anche il giorno quattro, ai rientro del simulacro, nei pressi del ponte della Scaffa e per quanto ho potuto rilevare da altre testimonianze - a Cagliari il ballo tondo si eseguiva in altre due occasioni: il 28 ottobre, in ricorrenza della sagra in onore di San Simone, nella isoletta «s’Illetta» sita nella laguna cagliaritana, e, sino al primo decennio del presente secolo, anche in piazza Indipendenza o nel ridotto esistente all'inizio del viale Buon Cammino, la sera dell’8 dicembre, giorno della Purissima. In Sardegna si svolgeva anche un ballo di soli uomini. Questo veniva praticato in Pula durante la permanenza del simulacro di Sant’Efisio in quella chiesetta dai notabili della sagra, dopo aver consumato l'invariabilmente luculliano pranzo a loro riservato, dal quale erano proscritte partecipazioni femminili. 

Particolare di una foto della chiesa di San Nicolò, a Cagliari, con lo spiazzo in cui si ballava (Campu de Santu Nicolau), si trovava all'angolo tra Via Sassari e Piazza del Carmine (Da una foto di Giuseppe Luigi Cocco - post 1860)

Abbandonato Vittorio Angius riscontriamo nel 1841 l'indicazione di Nicolò Oneto - direttore della Cappella e del Teatro civico di Cagliari - per la quale i ritmi della danza, nel meridione dell'isola, erano denominati «picchiadas». 

Giunge, quindi, a noi, in pregevole ed appropriato stile, la particolareggiata descrizione del ballo tondo, a cura di John Warre Tyndale (1849). In essa si accenna ad una comparazione tra il duru duru e la «romaica» della Grecia e dell'Albania, si precisa che ad Osidda non viene rispettata la costumanza già indicata dal Della Marmora sui due modi di tenere la mano alla dama, si delineano i movimenti singoli aderenti alla danza e, infine, si rappresenta - con dovizia di particolari e con larghezza di osservazioni «sa sciampita», la scena del danzatore che si spinge verso il centro della carola con un salto, incisivamente paragonato a quello eseguito da un cavallo impastoiato. 

Alla metà del XIX secolo appare il notissimo lavoro dì Antonio Bresciani, nel quale si riporta la danza sarda al rito delle feste di Adone, si descrive un ballo tondo osservato a Geremeas con la determinazione dei passi e del tremolii e si forniscono preziosi particolari sullo svolgimento successivo alla caduta del ballerino nella «sciampita». "Intorno a questo", nota il padre gesuita, "i danzatori tutti s'inginocchiano, s'accerchiano, s'ingroppano, fan viluppo; indi si sbaragliano, s'attraversano, si confondono con simulata baruffa a legge, accomodatamente d conci maggior grazia che mai, dando mostra d'un cruccio disperatissimo. In questo mezzo la lionedda spicca un suono allegro e spiritoso, e il morto giovinetto guizza in piè, batte le mani, leva e trincia una caprioletto leggera, mentre tutta la brigata, dato giù quel furore, ricompone il passo, assesta il cerchio e rapidissima galoppa, e scambietta, e si diguazza in un tripudio fiorito". 

Nicola Benedetto Tiole: "Tirai de pei" (1819-1826)

Gli scrittori succedutisi nella seconda metà del secolo scorso ad esempio Delessert, Maltzan, Domenech, Tennant, Corbetta e i nostri Ottone Bacaredda e Gavino Cossu hanno più o meno frammentariamente riportato notizie già note. Devesi giungere alla fine del secolo, per rinvenire ulteriori dati non trasmessi sino ad allora. 

Degno di rilievo è quanto scrisse Francesco De Rosa nel 1899 sullo specifico modo di ballare varie danze: quella degli Aggesi, su passu, il ballo zoppo, il ballo di tre, il ballo ricco, il balletto liscio, il ballo isciancu, il ballittu furriadu e quello sisirinadu. 

"Il Balletto in Gallura" - Coppie di Aggius (primi del 1900)

A chiusura delle notizie riferentisi al XIX secolo, mi piace riportarne una che stimo quasi sconosciuta: Nel 1898 11 direttore del teatro londinese «Principe di Galles» richiese, per telegramma, un maestro capace di insegnare la musica e le movenze del tradizionale ballo sardo nello stessi teatro. Mi risulta che un esperto isolano delle nostre danze partì e raggiunse Londra, ma non posso fornire alcun ragguaglio sull'esito e sugli sviluppi del suo operato: mi consta, però, che, varie riviste inglesi del secolo scorso si interessarono vivamente delle nostre danze.



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Giuseppe Della Maria, dal "Nuovo Bollettino bibliografico Sardo e Archivio Tradizioni Popolari", Anno III, n.17, Cagliari 1958




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